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L'amor di patria non è nazionalismo estremo

Written by Sergio Mattarella.

Sergio Mattarella
Intervista del Corriere della Sera.

Signor Presidente, a cent’anni dalla fine della Grande guerra cosa resta della memoria di quella che Papa Benedetto XV definì “inutile strage” e che pure cambiò le sorti del mondo intero?
«La Grande guerra è lontana dai ricordi personali, anche di tanti che oggi hanno i capelli bianchi. La memoria fa generalmente capo al secondo conflitto mondiale, alla fine delle atrocità nazifasciste, alla libertà riconquistata, all’avvio della storia repubblicana, alle grandi speranze di pace e di progresso. Fu il secondo dopoguerra ad aprire la porta della modernità non solo alle classi dirigenti ma anche ai ceti popolari, i quali volevano finalmente essere protagonisti del proprio destino.
Eppure la Grande guerra ha pesato molto sullo svolgersi dei decenni successivi. Si può dire che l’Italia e l’Europa tra le due guerre siano state segnate, quasi ristrutturate, dagli esiti del primo grande conflitto globale. La Grande guerra è stato uno spartiacque della storia. Fu una storia di sacrificio, coraggio e onore. Emersero però anche germi perversi che avrebbero continuato a produrre i loro effetti fino a vent’anni più tardi».
L’inizio del «Secolo breve», secondo una periodizzazione storica che ha avuto molto successo.
«Il “Secolo breve” si è presentato con la più dolorosa delle eredità: dieci milioni di morti nella sola Europa. Nulla, dopo la guerra, poteva tornare come prima. La fine di grandi imperi, la rivoluzione in Russia, l’intervento degli Stati Uniti in territorio europeo, la moltiplicazione degli Stati nazionali, la degenerazione di alcuni movimenti nazionalistici verso forme estreme di intolleranza e di pretese di predominio sulle persone e sugli altri popoli. Lo scenario mutò radicalmente mentre emergevano aspettative e sofferenze inedite nelle società, aggravate ma sopite dal conflitto. L’illusione di governanti e fautori della guerra contava su un scontro breve. Fu, invece, un conflitto lunghissimo che estenuò e lacerò le popolazioni. Da una guerra limitata e di movimento, si passò a una guerra di massa e di trincea che provocò massacri spaventosi. Doveva essere un conflitto limitato, volto a rimodulare equilibri nei Balcani, divenne, al contrario, la prima guerra intercontinentale, coinvolgendo l’America, l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa. Da quello spartiacque è venuto meno il primato dell’Europa nel mondo».
Cosa suscita in lei la data del 4 novembre? Lo slogan di una pretesa “vittoria mutilata” ha aiutato l’ansia di rivalsa del fascismo, e tanto la vittoria è entrata nella retorica del regime da risultare poi per molti quasi una parola impronunciabile.
«Il 4 novembre 1918 è il giorno della piena conquista dell’Unità d’Italia, con Trento e Trieste, al prezzo di centinaia di migliaia di morti, di un milione di feriti e mutilati, di seicentocinquantamila prigionieri di guerra. Di sofferenze immani, di straordinari eroismi, di disciplinato impegno, anche da parte della popolazione civile la cui vita fu, per tutto il conflitto, quasi militarizzata. La guerra fu vinta e questo contribuì a rafforzare lo spirito della Patria, che non era di parte e tantomeno di una parte sola, quella interventista, bensì era il portato di un nuovo senso di cittadinanza. La mobilitazione generale, la divisa, la trincea; la condivisione dei sacrifici e dei dolori nel “fronte interno” avevano aiutato a formare una nuova consapevolezza dell’essere italiani. “L’Italia è compiuta” ebbe a esclamare aprendo i lavori della Camera il suo presidente, il garibaldino Giuseppe Marcora, nella seduta del 20 novembre 1918, aggiungendo: “Nessun piede straniero calpesta più, né più calpesterà, né il Trentino nostro né Trieste”».
A parte questi aspetti di più compiuta identità patriottica, resta il fatto che i «dividendi della vittoria» non si sono tradotti in grandi vantaggi per noi…
«La gestione della Conferenza di pace di Parigi da parte del governo italiano non fu né sagace né accorta. Ma il mito ingannevole della “vittoria mutilata” venne costruito artificialmente in una fase successiva. La strumentalità irrispettosa verso i sacrifici degli italiani, con cui venne utilizzato contro la classe dirigente dell’epoca, con l’esclusiva cinica intenzione di trarne profitto politico, ebbe un ruolo nel marasma che avrebbe precipitato il Paese verso il fascismo. Il governo italiano, come quelli di altri Paesi, non comprese il potenziale innovatore dei Quattordici punti di Wilson: la vittoria italiana non venne investita per entrare nel novero dei Paesi protagonisti e regolatori di un nuovo ordine mondiale, basato sulla forza del diritto piuttosto che sul diritto della forza come era sempre stato sin lì. La gran parte degli Stati invece di conferire solidità alla Società delle Nazioni, con il definitivo superamento della pratica della diplomazia segreta, abbandonando la logica delle alleanze bilaterali e sviluppando strategie multilaterali, preferì restare dentro gli schemi della diplomazia ottocentesca, che puntava alla pura espansione territoriale e alla conquista coloniale. Non ci si rese conto che la guerra mondiale aveva cambiato i paradigmi».
Il regime mussoliniano impose i suoi canoni retorici e lasciò a lungo il segno. Tanto che ora, secondo lo storico Mario Isnenghi, «siamo ossessionati da Caporetto e abbiamo scordato Vittorio Veneto», rischiando così di dare più valore alla sconfitta che alla vittoria. Peraltro, certe interpretazioni in chiave antagonistica individuarono in Caporetto persino i prodromi di una rivoluzione, attraverso una sorta di sciopero militare che provocò la disfatta…
«La Repubblica certamente non dimentica Vittorio Veneto, la resistenza sul Piave, le battaglie nell’altopiano di Asiago, il Monte Grappa. I valori dei nostri soldati che hanno consentito la riscossa dopo Caporetto fanno parte delle radici della nostra unità nazionale. Sono valori, del resto, condivisi sin dall’origine con la coscienza di un popolo, che ha saputo reagire al tremendo colpo subito, alla paura, allo scoraggiamento. Caporetto non fu una rivoluzione, né, come si pretese, un momento di disonore dei nostri militari al fronte: grazie anche al prezioso lavoro degli storici, ora è più agevole riconoscere in quella drammatica sconfitta le responsabilità dei comandi e della guida politica di allora. I tragici errori lasciarono il posto a cambiamenti importanti. È una lezione che va meditata oltre ogni retorica: il destino è, in ogni stagione, nelle nostre mani, abbiamo una responsabilità, che dobbiamo sempre esercitare».
C’è qualche studio sulla Grande guerra, o racconto, che l’ha colpita in particolare?
«Quando andavo a scuola, prevaleva ancora una narrazione piuttosto retorica. Ricordo un libro di testo: vi era scritto che l’Italia, restando non belligerante nel 1914, aveva salvato l’Intesa, l’alleanza tra Francia, Gran Bretagna e Russia e che, decidendo l’entrata in guerra nel 1915, aveva salvato l’Intesa per la seconda volta. Non c’era nulla invece di quel travaglio, e anche delle manovre sotterranee, che precedettero la dichiarazione di guerra all’Austria. La maggioranza del Parlamento, e anche della popolazione, non era favorevole all’ingresso in guerra. Ma nelle classi dirigenti - della politica, dell’industria, dei giornali - si saldò l’interventismo dei nazionalisti con quello di ambienti politici che non lo erano, tra i liberali, i democratici, i socialisti. La coincidenza dell’imprevisto scoppio della guerra nel 1914 con una delle pause preordinate che portavano Giolitti, leader della maggioranza parlamentare, fuori della guida del governo ridusse ampiamente il ruolo del Parlamento nelle scelte effettive».
Purtroppo pochi intuirono dove ci avrebbe portato quella concatenazione di eventi.
«In realtà quasi nessuno, in Italia come nel resto d’Europa, riuscì a prevedere le conseguenze degli atti che si compivano. Da giovane mi ha molto colpito la lettura di Luglio ’14, di Emil Ludwig, scritto alla fine degli anni Venti: l’Europa scivolò nella guerra, la più spaventosa che l’umanità avesse mai conosciuto, senza rendersene davvero conto; per una serie di circostanze, di ripicche, di irrigidimenti, che nessuno aveva realmente programmato e che molti, nelle cancellerie e nelle diplomazie, neppure si proponevano. Le inerzie prevalsero sulle volontà, ma le inerzie della storia non costituiscono mai un alibi per la politica».
L’interventismo non ebbe comunque un segno univoco. Nella convergenza, e poi nella dialettica, tra interventismo nazionalista e interventismo democratico c’è forse più di una spiegazione sul prevalere del fascismo nel dopoguerra.
«Il fascismo fece propria e diffuse l’idea della guerra “generatrice” della Patria, attraverso il sangue degli italiani. Non si possono dimenticare le parole: ”la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”. Con questo spirito celebrava le “radiose giornate di maggio”. Emilio Lussu – più volte decorato al valor militare durante la guerra - replicò così in Parlamento, il 24 maggio del 1922: “Quando voi celebrate il maggio 1915 e dite che ha segnato l’era di una nuova vita in Italia, noi dobbiamo dire che fummo tra i primissimi a lanciarci arditamente sognando la grande impresa; ma vi facciamo presente che non tanto per un palmo di più lontana frontiera abbiamo gettato al vento la nostra giovinezza, ma ci siamo battuti soprattutto per uno sconfinato desiderio di libertà e di giustizia”».
Perché i messaggi di quel tipo non riuscirono a ispirare riflessioni problematiche negli italiani e neppure un diffuso disagio morale?
«Contro la visione di Lussu e tanti altri prevalse, purtroppo, la torsione autoritaria delle istituzioni: l’esasperazione del nazionalismo fu posta alla base di una supremazia dello Stato sul cittadino, di una chiusura autarchica, di una cultura e di una simbologia di guerra. Oggi possiamo dirlo con ancora maggior forza: l’amor di Patria non coincide con l’estremismo nazionalista. L’amor di Patria viene da più lontano, dal Risorgimento. Un impegno di libertà, per affrancarsi dal dominio imposto con la forza: allora da Stati stranieri. Dopo la Grande Guerra fu una parte politica a comprimere la libertà di tutti. In questo risiede il profondo legame tra Risorgimento e Resistenza. Per adoperare parole del presidente Giovanni Gronchi, “una coscienza nazionale che si rinnova, che attinge ai valori supremi spirituali e storici che la Patria sintetizza, che rende imperiosa l’esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza verso ogni egemonia dei più forti”. L’amor di Patria oggi è inscindibile con i principi della nostra Costituzione, che ne sono il prodotto e il compimento».
Numerosi volumi di microstoria hanno alzato il velo sulle indicibili tribolazioni dei civili durante la guerra e culminate nell’«anno della fame», il 1917. Ma né queste sofferenze, né i milioni di morti hanno pesato granché sulla coscienza dell’Europa, dato che quel conflitto ha incubato un’altra guerra e immense riserve di odio, anche etnico.
«La Grande guerra costituisce un monito perenne all’umanità. Per le atrocità compiute, per le conseguenze che ha prodotto. La pietà della memoria congiunge tra loro i nostri fanti delle trincee, con il loro eroismo e il loro sacrificio, i prigionieri lasciati morire per il mancato invio degli aiuti alimentari da parte dello Stato, i militari uccisi da spietate decimazioni, le famiglie angosciate, tante affamate e per di più sottoposte a dure restrizioni nel “fronte interno”. Occorre la forza della ragione per riesaminare e comprendere perché la fine della guerra non generò una vera pace, perché si sviluppò ulteriore volontà di potenza, perché il nazionalismo esasperato alimentò smanie espansioniste e di sopraffazione, persino l’odio etnico. Le democrazie hanno bisogno di un ordine internazionale che assicuri cooperazione e pace, altrimenti la forza dei loro stessi presupposti etici, a partire dall’inviolabilità dei diritti umani, rischia di diventare fragile di fronte all’esaltazione del potere statuale sulla persona e sulle comunità. La visione di un nuovo ordine mondiale, che Wilson anticipò all’indomani della guerra senza riuscire a radicarla, ha poi visto i suoi frutti nel secondo dopoguerra ed è necessario continuare a implementarla per tenere costantemente il passo delle grandi trasformazioni in atto».
Tra le conseguenze della Grande guerra vi fu una profonda crisi economica e l’indifferenza alla morte di massa. È da catastrofisti cogliere analogie con la crisi economica apertasi nel 2008 e con l’abulia europea verso le guerre jugoslave degli anni Novanta?
«Non pochi hanno paragonato la crisi economica del ’29 con quella deflagrata dopo il fallimento della Lehman Brothers. Penso che non sia improprio cogliere qualche assonanza: di certo, da quanto avvenne allora sono stati tratti insegnamenti utili per evitare in questi anni alcuni esiti catastrofici, che avrebbero fatto precipitare Paesi e popoli in una spirale recessiva ancor più grave di quella che comunque abbiamo dovuto affrontare. Quanto ai Balcani è giusto dire che ogni crisi, ogni tensione, ogni frattura che si determina in quella regione ci riguarda molto da vicino, più di quanto solitamente non si rilevi. Non è un caso che la Grande guerra sia stata innescata a Sarajevo. Ancora oggi è strettamente connesso ai nostri più vivi interessi un sempre maggiore sviluppo di convivenza pacifica e collaborativa nei Balcani, garantita dalla prospettiva di ingresso di quei Paesi nell’Unione europea. Abbandonare i Balcani a un destino di nazionalismi esasperati e contrastanti sarebbe un grave errore che l’Europa non deve commettere. Quella realtà ci riguarda e da essa possiamo trarre tutti insieme un ulteriore potenziale di sviluppo».
Lei ha detto di nutrire “un’innata diffidenza verso qualunque rischio di nazionalismo”, sentimenti comuni a tanti della sua generazione. Ritiene che quei rischi possano riaffacciarsi ora, in un’Europa che dopo 70 anni di pace e sviluppo sta perdendo centralità e slancio ideale?
«Non torneremo agli anni Venti o agli anni Trenta. Non temo la ricomparsa degli stessi spettri del passato, pur guardando con preoccupazione a pulsioni di egoismi e supremazie di interessi contro quelli degli altri: sarei allarmato da un clima in cui, più che concorrenza, si sviluppassero contrasti, poi contrapposizioni, quindi ostilità, ponendosi su una china di cui sarebbe ignoto ma inquietante il punto finale. Ma l’Europa si è consolidata nella coscienza degli europei, molto più di quanto non dicano le polemiche legate alle necessarie, faticose decisioni comuni nell’ambito degli organismi dell’Unione europea. L’interdipendenza tra i Paesi nasce anzitutto dallo sviluppo delle libertà, delle opportunità, delle risorse tecniche, economiche, culturali, civili che siamo riusciti a costruire in questi decenni di pace e di collaborazione. La libertà di movimento e di commercio, le medesime regole ormai consolidate in tanti settori economici e sociali, le innumerevoli iniziative e realtà comuni tra imprese, le sempre più strette collaborazioni nella ricerca e nelle professioni hanno prodotto un tessuto connettivo ormai indissolubile».
C’è chi considera simili legami un’insopportabile camicia di forza.
«A volte questa interdipendenza appare a taluno come un vincolo, e questo determina reazioni. Per questo, di fronte a una crisi, a un'insufficiente capacità di governo dei processi globali, si cerca nel focolare domestico la protezione dagli effetti dell’interdipendenza. Ma nessuno Stato, da solo, può affrontare la nuova dimensione sempre più globale. Ne uscirebbe emarginato e perdente. Soprattutto i giovani lo hanno compreso. Sono cresciute giovani generazioni che si sentono italiane ed europee e lo stesso è avvenuto in ogni Paese dell’Unione e questo rappresenta il più forte antidoto ad antistorici passi indietro».
Non teme che il premio Nobel Eugenio Montale avesse ragione quando scriveva che «la storia non è magistra / di niente che ci riguardi»?
Il poeta evoca, apre orizzonti e ammonisce. Ma quando ci dice che la storia “non è magistra” il pensiero corre piuttosto ad alunni indolenti e negligenti che non vogliono apprendere dalle precedenti esperienze. Penso alle manipolazioni che furono compiute a danno delle pubbliche opinioni dei vari Paesi nelle settimane che precedettero le decisioni di entrare in guerra, e non posso non rilevare che oggi, con Internet, con le possibilità di comunicazione immediata e oltre ogni frontiera di cui disponiamo, quelle manipolazioni sarebbero impossibili. Conosco i pericoli attuali che corrono sul web, le gravi insidie delle azioni cibernetiche ostili dall’estero come di quelle interne. Nell’esercizio delle libertà rientra la possibilità di usi distorti e addirittura perversi degli strumenti offerti dal progresso scientifico. Ma le nuove opportunità che ci vengono offerte sono una straordinaria risorsa che sta a noi utilizzare al fine del bene comune. Naturalmente va sempre tenuto conto che questo non è più soltanto il bene di un singolo popolo o di un singolo gruppo o di una singola persona. Come è possibile pensare che benessere, libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo possano riguardare soltanto alcuni al mondo? La pace e i diritti sono indivisibili. Anche oggi ricevono diverse minacce: il riarmo, che ci ricorda, per qualche aspetto, gli anni che precedettero il primo conflitto mondiale. Le tensioni regionali, le “guerre” commerciali, la fame e la povertà estrema, la desertificazione di vaste aree, lo squilibrio delle risorse e delle condizioni di vita. Dobbiamo prendere atto che la frontiera del bene comune è diventata più ampia e questo richiede apertura di pensiero e iniziative modulate sulla misura di questo nuovo, più ampio scenario».