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Giovanni Bianchi in un romanzo

Written by Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiArticolo di Lorenzo Gaiani pubblicato dai Circoli Dossetti.

“…lo sguardo azzurro, le occhiaie assai accentuate come a raccogliere le sofferenze del mondo, il sorriso appena accennato, ma che confermava l’aria di serenità. L’insieme trasmetteva l’idea di un animo che nel Seicento sarebbe stato descritto manzonianamente come scaturito limpido dalla roccia, che senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, limpido, va a gettarsi nel fiume.”
In queste parole di Lodovico Festa, la toccante descrizione che l’autore fa del suo primo impatto con Giovanni Bianchi: tutto il passaggio del suo libro “Addio Milano bella” che l’autore dedica al nostro maestro ne denota una conoscenza attenta e non banale, che sembra scaturire anche da una frequentazione non superficiale dei suoi scritti.
Lodovico Festa è stato un dirigente di rilievo della Federazione comunista di Milano negli anni Settanta e Ottanta, collocandosi nell’alveo della componente detta migliorista o riformista, e con alcuni dei suoi compagni, fra cui Piero Borghini e Luigi Corbani, uscì sbattendo la porta da quello che era ormai diventato il PDS poiché non ne condivideva la tiepidezza di fronte alla prospettiva dell’unità socialista sostenuta da Bettino Craxi. Spostatosi progressivamente verso gli ambienti di Forza Italia, è stato fra i fondatori del Foglio, del quale è stato anche per diversi anni condirettore accanto all’altro ex comunista di rango Giuliano Ferrara.
Negli ultimi anni ha pubblicato una trilogia di gialli politici che hanno come protagonista Mario Cavenaghi, ingegnere e funzionario del PCI milanese, capo del Collegio dei probiviri, al quale, oltre alle funzioni statutarie, viene conferito dalla dirigenza del partito il compito di indagare in via riservata su vicende che possono nuocere al PCI sotto il profilo politico o di immagine. Accanto a lui si muovono personalità del comunismo milanese e nazionale che, sia pure con i nomi modificati, sono facilmente riconoscibili da chi è a conoscenza di quelle vicende. Al di là delle trama investigativa, i romanzi sono per Festa l’occasione per ricapitolare passaggi storici della storia del PCI, di Milano, del Paese sotto la sua peculiare ottica di “ex” non pentito ma nemmeno nostalgico.
Il terzo romanzo, intitolato “Addio Milano bella”, pubblicato pochi giorni fa da Guerini e Associati, è ambientato nel 1993, dopo lo scioglimento del PCI e la nascita del PDS, e vede Cavenaghi tornare a Milano da Lugano , dove si è trasferito con la famiglia per le troppe delusioni professionali e politiche, per rispondere all’appello della dirigenza del PDS , estenuata dalle lotte interne, dalla scissione di Rifondazione comunista e dalle indagini di Tangentopoli, che ha registrato un notevole ed inspiegabile ammanco di cassa sul quale occorrono indagini riservate. La copertura di Cavenaghi è quella di raccogliere informazioni per una relazione sullo stato di salute economico, politico e sociale di Milano in una fase di cambiamento e di disarmo dei grandi partiti di massa che avevano segnato la storia della cosiddetta Prima Repubblica.
Fra varie personalità della cultura, della società e della politica, ad un certo punto Cavenaghi in un ristorante di Sesto San Giovanni incontra il Presidente nazionale delle ACLI “Gino Neri”, ossia, scopertamente, Giovanni Bianchi, il nostro fondatore e maestro, che all’epoca ricopriva quell’incarico.
La descrizione che Festa fa di Giovanni è significativa e toccante: “Non era alto, la sua era una figura dimessa anche nei vestiti, era calvo con pochi capelli biondi ai lati della testa, ma colpivano lo sguardo azzurro, le occhiaie assai accentuate come a raccogliere le sofferenze del mondo, il sorriso appena accennato, ma che confermava l’aria di serenità. L’insieme trasmetteva l’idea di un animo che nel Seicento sarebbe stato descritto manzonianamente come scaturito limpido dalla roccia, che senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, limpido, va a gettarsi nel fiume. Insomma, un tipico rappresentante di quel cattolicesimo lombardo, controriformista ma giansenista, non privo di rappresentanti aristocratici ma legato ai campi, realista ma visionario. Mario ne fu colpito e quasi si preoccupò su come impostare, con una personalità così ispirata, una conversazione che voleva esaminare più i fatti che le idee. D’altro verso l’impegno del suo interlocutore era principalmente rivolto a colloquiare con i lavoratori, che costituivano la base dell’associazione che guidava, e questo era una garanzia di concretezza”.
Se questo ritratto fosse uscito dalla penna di uno di noi, che fummo fra gli intimi di Giovanni, si sarebbe potuto dire che ci facevano velo l’amicizia ed il rimpianto: il fatto che a scrivere queste parole così vere e così sentite sia stato un uomo estraneo culturalmente e politicamente all’ambiente da cui Giovanni proveniva, e che oltretutto, attraverso il protagonista – evidente proiezione dell’autore – fa capire di dissentire dalle posizioni che all’epoca Giovanni sosteneva, dimostra chiaramente del rispetto, della stima, della considerazione che Bianchi seppe riscuotere in tutti gli ambienti che in qualche modo aveva frequentato.
È interessante riportare anche alcune delle considerazioni che l’autore mette in bocca al Presidente delle ACLI: “Il messaggio cristiano non semplifica i problemi, è rigoroso se produce scandalo in tutte le direzioni, per tornare al politichese, sia a destra sia a sinistra. Certo però che quelle posizioni , che tendono a privilegiare alcuni tratti della spiritualità cristiana, pensando così di fortificare una identità che sfidi la secolarizzazione in atto, corrono il rischio, come spiegava Jacques Maritain, di sfociare su orientamenti parafascisti tipo quelli dell’Action francaise. Peraltro non devi prendermi neanche per un feticista della Costituzione. Per esempio in questi mesi ho impegnato le ACLI, di cui sono presidente, nell’appoggiare i referendum di Mario Segni che puntano a modifiche, di fatto profonde, della Costituzione. E inoltre, se dal contingente si passa all’analisi delle radici delle mie convinzioni, devi tener conto che la mia riflessione nasce sempre dalla dialettica fra spiritualità e politica, che trovano tra loro una congiunzione e insieme la misurazione di una distanza e talvolta di una estraneità. Uno dei miei grandi ispiratori intellettuali, il domenicano Chenu, ragiona sulla teoria del movimento operaio come ‘luogo teologico’, inserendo così la dinamica sociale e politica in una dimensione più ampia. È in questo contesto che faccio i conti, appunto dialetticamente, con la potenza della politica moderna, in sé tragica e pessimistica, dal momento che parte dalla constatazione o comunque dalla convinzione che il male, come la zizzania evangelica, non sia estirpabile ed eliminabile”.
Qui c’è il segnale di una frequentazione non banale né disattenta degli scritti di Giovanni, che in effetti ci riconsegna la sua profonda convinzione di come il rapporto fra fede e politica fosse intimamente contraddittorio e di come tuttavia la contraddizione debba rimanere aperta giacché il credente non è esentato dal vivere nella storia dell’umanità, ma è anzi spronato a vederla comunque come storia redenta dalla presenza di Cristo testimoniata e prolungata nel tempo dai suoi seguaci. Una linea di pensiero, peraltro, che Bianchi in quello stesso periodo voleva diventasse elemento comune di riflessione a tutte le ACLI attraverso i convegni annuali di Urbino ed il costante colloquio con il gesuita Pio Parisi, che del rapporto fra Vangelo e politica aveva fatto l’oggetto principale della sua riflessione, e lo stimolo derivante dalla presenza di un altro dei nostri padri fondatori, Pino Trotta, all’epoca capo dell’Ufficio studi delle ACLI nazionali.
L’incontro con Giovanni è solo uno dei tanti dell’ingegner Cavenaghi nel corso della sua indagine, che avrà un esito sorprendente, ma credo si debba ringraziare Lodovico Festa per averci restituito, in maniera del tutto inattesa, un così limpido e sincero ritratto di una persona a cui noi tutti del Circolo Dossetti, e non soltanto noi, dobbiamo così tanto.