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Unico comune destino

Scritto da Emilia De Biasi.

Emilia De BiasiArticolo di Emilia De Biasi pubblicato da Panorama Sanità.

La grandezza del nostro Servizio Sanitario Nazionale pare essere finalmente compresa dai più. È un Servizio universalistico, forse il solo in Europa, vista la propensione inglese e del Nord Europa alla selezione delle cure in base all’età e alle capacità individuali di sopravvivere. In Italia curiamo tutti e non lasciamo indietro nessuno. È tutto nell’articolo 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge”.
Ma l’unico diritto che la Carta definisce fondamentale è stato negli anni disatteso da finanziamenti esigui rispetto al bisogno di salute, non sempre spesi bene, senza mai porsi il problema della riconversione della spesa per aggiornare il sistema, vedi la digitalizzazione mancata, senza il punto di vista del paziente come svolta nelle procedure di cura. E soprattutto nell’ostinazione al risparmio sull’unica voce su cui non si sarebbe dovuto risparmiare: il personale sanitario, i medici, gli infermieri, i professionisti della sanità senza i quali non è possibile fare salute.
Ricordo la frustrazione di un’intera legislatura passata a chiedere con i miei colleghi della Commissione Sanità del Senato incrementi di fondi per il personale, e come noi negli anni precedenti tanti altri parlamentari si sono sentiti dire di no, in nome della sostenibilità del sistema. Un sistema però è sostenibile finché noi lo riteniamo tale. Ci accorgiamo, tardivamente, che servono medici e infermieri, ora che sono distrutti da turni massacranti in tute che non fanno respirare, o che vengono contagiati per la leggerezza di indicazioni scarse sulla loro sicurezza?
Bene ha fatto il Ministro Speranza a dire che la loro sicurezza è una priorità, ma è di “ieri” l’appello disperato dei medici di medicina generale per ottenere almeno le mascherine a protezione nel rapporto con i pazienti, che a loro volta ne sono privi perché come noto non si trovano più.
I più attenti a questo punto diranno che la sanità è materia concorrente fra lo Stato e le Regioni e la sua organizzazione è prerogativa delle Regioni, come recita il Titolo V della Costituzione: è un motivo in più che mette in evidenza la disuguaglianza nella salute del nostro Paese e, come vediamo in questi giorni, non solo fra Nord e Sud. Non è questa la sede di una disamina delle difformità regionali nella salute, e prima di tutto nell’applicazione del Livelli essenziali di assistenza e nell’offerta terapeutica e assistenziale di un’epidemiologia cambiata, di invecchiamento della popolazione e di aumento delle cronicità e delle comorbidità, per non parlare dei viaggi della speranza per l’oncologia, o del rapporto fra ospedale, territorio e cure primarie. E le difficoltà di risposta all’epidemia dei coronavirus non sono il simbolo di mancanze, ma svelano inadeguatezze di lungo periodo: quante Regioni hanno un Piano per l’Emergenza pronto a funzionare, ora che deve funzionare? E quante viceversa hanno considerato la prevenzione una inutile e costosa Cenerentola del sistema? Le vittime sono in prevalenza anziane, e muoiono non tanto per il virus ma per comorbidità associate alla polmonite, erano cioè già persone a rischio. E vi sembra normale che ogni Regione faccia come crede e per esempio decida di inviare le persone in riabilitazione dal virus nelle Rsa, notoriamente frequentate da persone anziane, con rischi enormi di diffusione di un contagio per molti di loro letale? Per non parlare del tampone, cioè del test sulla positività al virus. Qui siamo nel campo delle cento pertiche: Regioni che lo fanno a tappeto a tutti, altre solo a chi finisce in ospedale, altre ancora solo al personale sanitario. Abbiate pietà di noi!, verrebbe da dire, e dateci una indicazione uguale per tutti.
Ci viene in aiuto la Costituzione, Titolo V, articolo 120: “(…) Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. Se lo Stato sceglie di non avocare a sé la materia, può però rafforzare la collaborazione con e fra le Regioni. Non credo che la soluzione stia nell’accentramento dei poteri, anche perché non so se lo Stato da solo sarebbe in grado di fare fronte alle politiche di prossimità. Una cosa però è certa: va ripensata tutta la riflessione sulle autonomie più o meno differenziate. Quando il Sindaco di Bergamo, città martoriata dal virus, ringrazia il Sindaco di Palermo per aver messo a disposizione un letto di terapia intensiva per un suo concittadino non fa solo un bel gesto, ma afferma l’idea che siamo un’unica nazione, con un unico comune destino. Quando ne saremo fuori dovremo anche parlare un po’ del rapporto fra pubblico-privato convenzionato e privato nella sanità, senza i toni da bar sport di questi giorni, e mentre la Spagna requisisce tutte le strutture da noi è l’ora del filantropo, delle donazioni e pure delle polemiche su chi fa l’ospedale per cure intensive nel minor tempo possibile e chi vuole riutilizzare ospedali dismessi. Si tratta di dibattiti surreali alla luce della gravità della situazione, che rivelano a dir poco superficialità, amplificata purtroppo da social affamati di clamore, di fake news, talvolta di odio.
Tornerà l’epoca della valorizzazione delle competenze? Verrà il giorno del dialogo pubblico fra scienza e istituzioni dopo l’era dell’uno vale uno?
Ad oggi non sappiamo ancora quanto durerà questo particolare esilio dai luoghi collettivi, ciascuno nella propria casa, ad occupare un tempo che scopriamo di non saper più utilizzare, e che forse sprechiamo, come se l’abitudine al consumo di beni, ora impossibile, venisse trasformato in consumo vuoto della nostra vita. Fragili, possiamo solo fidarci dell’autorità istituzionale, la quale a sua volta non può che appoggiarsi al parere e alle indicazioni della scienza. Isolati, ma non soli, non accontentiamoci di contare i morti che non abbiamo nemmeno potuto piangere, ma diamo un cenno di aver capito la lezione, e attrezziamoci a ricostruire un’etica pubblica della solidarietà e dell’aiuto.
Non sappiamo quanto durerà, ma finirà, e non saremo più gli stessi perché tutto dentro e attorno a noi sarà cambiato. E ci stringeremo la mano riconoscendoci migliori.

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