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Il contesto geopolitico in cui si trova la Libia

Scritto da Piero Fassino.

Piero Fassino
Intervento di Piero Fassino alla videoconferenza "Missione in Libia e impegno per i diritti umani" (video).

Grazie dell’opportunità di un dibattito su un tema cruciale su cui è bene cercare di riflettere e approfondire tutti gli elementi.
La vicenda libica per essere compresa ha bisogno di essere collocata in un contesto Mediterraneo-Medio-Orientale particolarmente difficile e critico.
Dall’Iran fino allo stretto di Gibilterra, tutta questa enorme fascia del Medio-Oriente e del Mediterraneo è investita da una sequenza di criticità e di instabilità, seppur di segno diverso tra loro.
L’Iran è un Paese critico per molti aspetti.
L’Iraq è percorso da uno scontro sanguinoso tra sunniti e sciiti e ha una continua instabilità politica.
La Siria è investita da una guerra civile che quest’anno è al 10° anno.
Lo Yemen è anch’esso investito da una guerra civile.
Gibuti è un punto delicato al pari di tutto il Corno d’Africa, cioè Somalia, Eritrea e perfino l’Etiopia, al cui Presidente è stato dato il premio Nobel per la pace, da circa un mese è investita da scontri interetnici particolarmente duri che hanno causato decine di morti.
L’Egitto è un Paese problematico anche se, forse, in questa situazione può apparire come più stabile.
Il Sudan recentemente è stato investito da grandi cambiamenti e, quindi, è alla ricerca di una stabilità che consenta la transizione verso la democrazia.
Il Libano è un Paese percorso da una costante instabilità politica interna, data da un’evidente contestazione di una parte larga della società civile nei confronti della classe dirigente inamovibile che guida la nazione da decenni.
La vicenda israelo-palestinese sappiamo tutti che è in un passaggio molto delicato, date le intenzioni - per ora sospese - di Netanyahu di procedere all’annessione della valle del Giordano e degli insediamenti ebraici in Cis-Giordania.
L’Algeria è caratterizzata da un’instabilità politica non meno rilevante perché, come in Libano, anche lì c’è un movimento della società civile che contesta la classe dirigente del Paese.
Il Marocco, probabilmente, è il Paese più stabile dell’intera area.
L’intera grande fascia che va dallo Stretto di Gibilterra fino all’Iran, quindi, è investita da guerre, instabilità politica, transizioni incerte e, dunque, c’è una situazione molto difficile.
Questo è, quindi, un primo tema.
La Libia si colloca dentro a questo contesto e questo è un primo elemento che spiega perché nella guerra libica agiscano molti più attori rispetto a quelli interni.
La guerra libica, infatti, non è soltanto una guerra tra il Presidente Serraj e Haftar ma non è neanche soltanto una guerra che coinvolge altre organizzazioni politiche e militari libiche. Sappiamo tutti che dietro i protagonisti del conflitto armato ci sono altri conflitti, tanto che si è introdotta un’espressione politologicamente nuova che è la “guerra per procura” proprio perché dietro a Serraj c’è la Turchia, che ha schierato i suoi contingenti e i suoi armamenti in Libia e dietro Haftar ci sono l’Egitto e la Russia a cui si aggiunge un atteggiamento non ostile della Francia.
Dobbiamo sapere, quindi, che la crisi libica non è circoscrivibile alla Libia in quanto tale ma è parte di una crisi più generale che segna un alto grado di instabilità, di insicurezza e di criticità in tutto il Mediterraneo.
Questo pone un problema gigantesco all’Europa.
Il Mediterraneo non è la frontiera Sud dell’Europa: ormai il Mediterraneo è la regione Sud dell’Europa.
Tutto ciò che accade nel Mediterraneo e in Medio Oriente investe direttamente l’Unione Europea.
L’Unione Europea, quindi, ha il dovere di avere una strategia nei confronti del Mediterraneo e del Medio Oriente.
In termini di principio questa strategia c’è perché non si ha una riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri europei che non approvi una dichiarazione e un documento sulla Libia ma poi quella politica non riesce a tradursi in un’azione efficace perché dietro le dichiarazioni e i documenti comuni ci sono in realtà atteggiamenti differenziati e spesso opposti dei Paesi europei che finiscono per rendere sterili le dichiarazioni che l’Unione Europea assume e, dunque, rendono poi difficile poter agire.
Tornando alla vicenda libica, si vede che è parte di un quadro di instabilità regionale molto più ampio.
La Libia, come quasi tutti i Paesi del Medio Oriente, è figlia nella sua composizione e nei suoi confini di scelte che sono state operate dalla diplomazia europea in altri tempi.
È sufficiente vedere come sono stati tracciati i confini tra l’Iraq e la Siria per averne un esempio. Tanto che si discute se la Siria così come si configura abbia un fondamento storico, politico o culturale.
Lo stesso ragionamento vale per la Libia, che è costituita da due regioni che hanno avuto nel corso del tempo etnie e politiche molto diverse tra loro.
È dopo la guerra italo-turca del 1911, con la vittoria dell’Italia sull’Impero Ottomano che l’Italia, conquistando la Libia, le dà quei confini che sono rimasti anche oggi ma che in realtà sono figli del processo bellico e politico di quegli anni piuttosto che della Storia e della cultura della Libia.
Questo spiega molto del fatto che ci sia un Parlamento a Tripoli e uno Tobruk, ciascuno con un Governo, così come da sempre la Cirenaica rivendica l’autonomia se non addirittura l’indipendenza rispetto a Tripoli.
Tutto questo è dentro al conflitto libico.
La Libia non ha una storia nazionale libica ma è la somma di una serie di aree, di regioni e di tribù che ad un certo punto si sono configurate come parti di uno Stato che però non ha identità e non ha storia.
Questo spiega anche la guerra e la difficoltà di trovare una composizione.
La Libia, inoltre, è in un punto strategico, in quanto si trova al centro del Mediterraneo e di quella fascia dell’Africa del Nord che va dall’Egitto al Marocco e si spinge a Sud verso il deserto del Sahara, verso il Sahel e verso zone particolarmente critiche, come il Mali, il Burkina Faso e Niger.
Il Sahel negli ultimi anni è caratterizzato da una particolare instabilità, segnata dall’infiltrazione di cellule terroristiche, prima Al Qaeda e ora Daesh.
Non dimentichiamoci che poco distante da quei Paesi c’è la Nigeria dove opera Boko Haram.
La Libia è in un punto molto delicato ed è il territorio di transito dalla regione del Sahel e del Centro Africa verso il Mediterraneo e verso l’Europa.
Questo spiega perché la Libia sia diventata uno dei luoghi di transito principale dei flussi migratori.
I flussi migratori che arrivano dalla Libia sono ormai soltanto in minima parte costituiti da donne e uomini di origine magrebina e in gran parte costituiti da popolazioni che arrivano da Niger, Mali, Repubblica Centrafricana, Nigeria.
Quando si affronta il dossier libico, quindi, si affronta un dossier complesso e difficile su cui interagiscono una molteplicità di attori (Russia, Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar) e da un contesto caratterizzato dalla polverizzazione degli attori (Haftar e Serraj sono i due principali che tutti conoscono ma in molte altre aree e altre città ci sono poteri che si costituiscono in modo autonomo anche rispetto a Serraj e Haftar).
Infine, la Libia è in un punto strategico della connessione tra Africa e Europa e questo spiega perché sia così decisivo ciò che avviene lì anche rispetto ai flussi migratori nell’Unione Europea.
Pacificare la Libia è dunque fondamentale per tutte queste ragioni ma proprio per queste ragioni è anche complesso e difficile.
Servirebbe, quindi, un’Unione Europea capace di parlare con una sola voce e di agire con una sola mano.
Formalmente è così e l’Unione Europea riconosce il Governo Serraj come unico Governo legittimo della Libia, così come indicato dalle Nazioni Unite.
L’Italia, coerentemente con questo impianto, riconosce il Governo Serraj e ha l’Ambasciata aperta a Tripoli. Siamo l’unico Paese dell’Unione Europea in questo momento ad avere l’Ambasciata aperta in Libia.
Sappiamo, tuttavia, che questa posizione unitaria dell’Unione Europea deve fare i conti con un diverso atteggiamento di alcuni Paesi europei, in particolare la Francia e, prima che ci fosse la Brexit, anche la Gran Bretagna.
C’è, quindi, una difficoltà oggettiva da parte dell’Unione Europea di agire e di essere in grado di avere un ruolo attivo per sedare il conflitto e avviare ad una soluzione politica.
Tutte le volte che si apre un conflitto da qualche parte del mondo, la prima cosa che tutti diciamo è che non ci può essere una soluzione militare e la soluzione è politica ma se poi andiamo a vedere la dinamica di quelle crisi, l’unica cosa che continua ad agire sono le armi.
È così in Siria, Yemen, Libia e ovunque ci sia un conflitto perché la capacità di far prevalere la soluzione politica sulla soluzione militare è debolissima e spesso inefficace.
Questo la dice lunga sulla debolezza della comunità internazionale nel perseguire politiche di stabilizzazione, di peacekeeping e di sedazione dei conflitti. Al di là delle giuste dichiarazioni sulle soluzioni politiche, quando si va a vedere sul terreno, si vede che l’unica cosa che opera è la dimensione militare mentre la dimensione politica è assolutamente inefficace.
Credo, però, che non ci si possa rassegnare all’inevitabilità delle armi e, quindi, è giusto lavorare per creare le condizioni perché ci possa essere una soluzione politica.
Il sostegno dell’Italia al Governo Serraj è coerente con la scelta che hanno fatto ONU e Unione Europea.
Quando è utile non rinunciamo a interloquire anche con Haftar ma questo non equivale ad un’equidistanza.
La posizione italiana è di sostegno al Governo Serraj, anche se qualche atto un po’ improvvido dei mesi scorsi può aver dato l’idea di una nostra equidistanza che invece non c’è e non può esserci.
Il sostegno al Governo Serraj, ovviamente, è finalizzato a creare le condizioni affinché cessino le operazioni militari e si apra finalmente un tavolo negoziale per una pace.
Nel sostenere il Governo Serraj, l’Italia è impegnata su più fronti: sull’assistenza sanitaria con l’ospedale di Misurata, sull’opera di bonifica per rendere meno drammatica la vita della popolazione civile e parte proprio in queste settimane un programma di sminamento degli edifici civili che sono stati minati e che sono un pericolo drammatico per chi ci vive e per chi si trova in prossimità.
La popolazione è esposta a rischi colossali e il programma di sminamento ha come obiettivo quello di restituire ad una popolazione civile già molto martoriata almeno condizioni minime di sicurezza.
Ci sono aiuti economici che stiamo dando al Governo Serraj per favorire qualche forma di sviluppo economico che consenta alla Libia di non vivere soltanto di aiuti esterni.
Infine c’è il sostegno alla Guardia Costiera libica che è oggetto di molte polemiche perché gli esponenti della Guardia Costiera libica sono fortemente legati ai trafficanti di migranti, come sappiamo sulla base di informazioni e anche di prove che abbiamo avuto.
Noi abbiamo posto ripetutamente e continuiamo a porre al Governo Serraj la necessità di una bonifica della Guardia Costiera e di rompere i legami con i trafficanti ma la cosa non è semplice.
La proposta di andare via da parte di chi chiede perché assistiamo la Guardia Costiera libica, cioè mettiamo a disposizione strumenti operativi (scafi, materiale marittimo, materiali di monitoraggio del mare) non è risolutiva del problema.
Anche se andassimo via, la situazione non cambierebbe, anzi, probabilmente sarebbe ancora peggio perché, finché l’assistenza alla Guardia Costiera la facciamo noi, abbiamo almeno la possibilità di insistere a chiedere che venga bonificata rispetto ai legami che può avere con i trafficanti mentre se andiamo via, la Guardia Costiera libica diventa semplicemente la longa mano dei trafficanti e la situazione peggiora.
In questo caso, dunque, bisogna scegliere il meno peggio. Il bene non c’è.
Il meno peggio è quello di evitare che i trafficanti abbiano in mano la Guardia Costiera, come rischierebbe di succedere se andassimo via.
Abbiamo posto il problema più volte e stiamo lavorando per questo e per lo svuotamento dei campi di contenimento dei migranti clandestini, attivando i corridoi umanitari in primo luogo per donne e bambini, cioè la popolazione più fragile che si trova lì.
È importante che il Governo italiano attivi dei corridoi umanitari ma è altrettanto importante che questa attività sia sostenuta dall’Europa perché se dovessimo essere soltanto noi i destinatari dello svuotamento dei campi questo aprirebbe altri fronti di problemi nella nostra politica interna.
Ci stiamo battendo, quindi, non solo per convincere l’autorità libica a consentire lo svuotamento dei campi attraverso corridoi umanitari ma anche per convincere l’Unione Europea a farsi carico dell’accoglienza di chi proviene dai campi.
Sulla questione della Guardia Costiera si sta lavorando anche su altri fonti. Per garantire l’applicazione dell’embargo sulle armi, l’Unione Europea ha varato la missione Irini - che ha sostituito la vecchia missione Sophia - e tra i compiti c’è anche quello dell’assistenza alla Guardia Costiera quando sarà a regime.
Noi stiamo lavorando al trasferimento dell’assistenza alla Guardia Costiera da un rapporto bilaterale tra Italia e Libia ad un rapporto multilaterale tra Libia e Unione Europea attraverso la missione Irini.
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