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La missione italiana in Libia

Scritto da Roberta Pinotti.

Roberta PinottiIntervento di Roberta Pinotti svolto alla videoconferenza "Missione in Libia e impegno per i diritti umani" (video).

Queste iniziative servono per evitare di andare su scontri feroci e ideologici che poi non portano a nessun passo avanti rispetto alle proprie posizioni.
Le questioni di cui stiamo parlando sono molto complicate e molto difficili.
Il quadro che ha fatto Piero Fassino è perfetto dal punto di vista della situazione geopolitica.
Ho ascoltato con estrema attenzione anche tutto ciò che è stato detto da Petracca perché sono stimoli, considerazioni e problematiche che credo dobbiamo assolutamente tenere presenti e che toccano ciascuno di noi perché ci interpellano.
Quando ho cominciato ad occuparmi della questione libica eravamo nel 2014; quando sono diventata Ministro della Difesa ho cominciato a osservare con più attenzione e preoccupazione quello che stava avvenendo in Libia.
Eravamo nel dopo-Gheddafi. Per una certa fase e per un certo periodo c’è stato comunque un Governo che si basava sul Parlamento di Tobruk e che veniva considerato il Governo ufficiale. Era in ogni caso un Governo appoggiato da quel Parlamento. Le tensioni varie che c’erano nel mondo politico e nella società libica hanno portato ad una serie di contrapposizioni e alla fine sono nati due Parlamenti.
La divisione tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che fa parte della storia della Libia e che ancora oggi è molto forte, si veniva a contrapporre anche plasticamente con il fatto che comunque due diventavano i possibili interlocutori. Si erano insediati due Parlamenti in due realtà diverse.
Qui vorrei inserire un elemento che forse non abbiamo adeguatamente toccato ma che dà l’idea della complessità.
Quando Paolo Petracca parlava della problematica o della debolezza che a volte si ha nelle questioni internazionali, non abbiamo citato l’ONU.
Eppure l’elemento incredibile è che, in questi anni, ho visto passare tre inviati dell’ONU sulla Libia, anche l’ultimo si è dimesso senza essere riuscito ad arrivare ad un compimento. La missione di questi inviati era quella di riuscire a risolvere le tensioni interne per arrivare alle elezioni e arrivare ad una situazione comunque di Governo riconosciuto della Libia.
Stiamo parlando, quindi, di molti anni in cui l’ONU incarica delle personalità che ritiene che possano essere all’altezza di gestire queste situazioni ma poi queste personalità finiscono i loro anni di mandato senza avere concluso nulla rispetto a ciò che era il loro obiettivo.
Questo ci porta a fare due riflessioni, la prima delle quali è che, nel disordine attuale del mondo, c’è anche la debolezza che l’ONU ha nella possibilità di intervenire, alla base di cui ci sono molte ragioni (non si parla di più di riformare l’ONU ma se ne è parlato per molto tempo senza riuscire a farla) e dall’altro lato c’è il fatto che la situazione in Libia è molto complicata, altrimenti una pista di lavoro per uscire fuori dal caos la si sarebbe trovata.
Tornando al tema, ad un certo punto la comunità internazionale ha riconosciuto Serraj come Presidente legittimo e, quindi, è diventato l’interlocutore con cui parlare.
L’Italia è sempre stata dentro a quelli che sono gli ambiti di legittimità internazionali e, quindi, l’interlocutore con cui parlare è stato Serraj, pur non smettendo di parlare anche con altri interlocutori che erano comunque importanti, accolti anche con un protagonismo che ha portato anche a situazioni di grave difficoltà, se pensiamo soprattutto all’ultima fase di Haftar. In ogni caso, abbiamo parlato con tutti gli interlocutori per riuscire ad arrivare ad una sintesi.
L’Italia veniva comunque accettata e non è un caso se è stata l’Italia a riaprire per prima l’ambasciata a Tripoli. Questo è il segno con cui anche i libici ci hanno detto che riconoscevano la possibilità di interloquire con l’Italia più che con altri attori.
In quegli anni di grandissima confusione e grandissime difficoltà anche per la popolazione libica, non è che l’Italia non abbia mai provato a sottoporre all’Europa con forza e determinazione il fatto di doversi occupare della questione libica ma, negli anni che abbiamo vissuto, quasi tutti i Paesi non hanno voluto saperne, eccetto Angela Merkel, che ad un certo punto alzato un po’ la testa dai problemi territoriali specifici e ha guardato un po’ più lontano. Altrimenti la preoccupazione del tema immigrazione con le possibili ripercussioni negative sul consenso elettorale di chi in quel momento governava i Paesi era diventato un blocco per cui qualsiasi proposta venisse fatta, se comunque conteneva l’idea di doversi occupare insieme di questo tema perché l’Europa non può pensare di non occuparsene insieme, iniziava un blocco.
Questo è avvenuto non perché l’Italia non ha provato con forza a porre il tema sempre e costantemente ma perché sembrava di parlare con sordi. Appena si inseriva il tema della ricollocazione dei migranti o di politiche condivise sull’immigrazione era come se si chiudessero tutte le orecchie e qualsiasi possibilità di comunicazione.
L’Europa ha dato un primo piccolo segnale che, però non riguardava la redistribuzione, con una missione europea che si chiamava Sophia e che era anche di soccorso in mare ma che aveva come obiettivo anche la formazione della Guardia Costiera libica.
È nata, quindi, una missione europea dove l’idea non era che la Guardia Costiera libica dovesse bloccare i migranti ma che quando si deve ricostruire un’autorità statuale, formare le forze armate e le capacità di controllo del territorio fanno parte degli elementi di cui ci si deve occupare.
Ero anche stata insieme all’allora Alto Rappresentante Mogherini alla fine di uno di questi corsi di formazione che venivano fatti da militari europei, tra cui anche molti italiani; la nave di comando era italiana ed era una formazione che riguardava tutti i trattati internazionali che sono alla base del modo di muoversi dei militari italiani.
Era, quindi, una formazione mirata a creare una cultura della legalità e dell’attenzione anche ai diritti umani in persone che comunque erano in una situazione molto confusa. In Libia, quando si parla di Guardia Costiera, non dobbiamo immaginare la nostra Guardia Costiera: una parte dipende dalla Difesa, una parte dagli Interni, altre da autonomie locali. La situazione, quindi, era molto confusa e anche la scelta di chi formare era complessa perché si cercava un’interlocuzione seria anche per non avere tra coloro che partecipavano alla formazione e su cui c’era anche un investimento dell’Europa e dell’Italia persone che potessero poi essere miliziani che si erano macchiati di azioni delittuose.
Era una situazione delicata ma c’erano delle indicazioni per fare in modo che nelle persone da formare ci fosse un’attenzione da parte dei nostri interlocutori libici.
Questo con tutte le difficoltà legate a com’era la situazione della Libia.
Racconto questo per dire che c’è stato un lavoro, che è stato fatto inizialmente e prioritariamente con l’Europa ma dove l’Italia è sempre stata presente e protagonista.
Dal punto di vista della sicurezza, guardando anche alla difesa del Paese, la Libia non l’abbiamo tenuta presente soltanto con particolare attenzione perché è il cuore del Mediterraneo ed è di fronte a noi.
Il fatto che la Libia sia di fronte a noi, oggi si ripercuote sul tema delle politiche migratorie ma non è solo questo.
C’è proprio un tema di sicurezza generale. Non va dimenticato che in quegli anni c’era l’ISIS, che è stato proclamato prima in Iraq e in Siria ma focolai molto importanti dell’ISIS ci sono anche in Libia, in particolare a Derna e a Sirte, quindi, il fatto di aiutare a stabilizzare la Libia, in quel momento, era anche un modo per non far diventare la Libia un nuovo territorio dei terroristi che avrebbero potuto organizzare uno Stato di fronte all’Italia.
C’era, quindi, anche tutta questa questione legata agli elementi della sicurezza.
Questo è anche il motivo per cui, dopo Sophia, è nata la prima missione militare italiana che ha portato un ospedale militare a Misurata. L’ospedale viene fatto proprio su richiesta della Libia e di Serraj perché nella battaglia che era stata portata avanti contro i miliziani terroristi dell’ISIS, che stavano combattendo per riuscire a dominare sui territori, c’erano stati moltissimi feriti, oltre che molti morti. C’era, quindi, stato richiesto un sostegno.
L’Italia è stata la prima nazione a entrare con dei propri militari ma non in assetto di azione di guerra ma con una capacità che è quella dell’ospedale militare.
Perché militari e non civili? Perché in quel momento la sicurezza in Libia era assolutamente precaria e c’era una situazione di grandissima difficoltà, come anche adesso, e quindi l’ospedale doveva essere presidiato da forze di sicurezza e, quindi, i militari insieme a medici, infermieri e operatori sanitari hanno inviato anche persone che dovevano fare in modo che ci fosse la sicurezza.
Arriviamo, quindi, alla missione che oggi è ancora in discussione.
Questa missione nasce dopo il Memorandum del 2017, firmato da Serraj e Gentiloni e che viene riconosciuto come base importante di lavoro dall’Europa nel vertice di Malta di febbraio.
In questo Memorandum si parla anche di sostenere la ricostituzione della Libia e, quindi, le capacità della Libia a tornare in grado di gestire la parte sana della sicurezza in mare.
Dentro a questo Memorandum si parla di inserire l’UNHCR e si parla anche del problema, non ancora messo a fuoco come oggi, di quello che sono i migranti che dall’Africa e da molti Paesi e che sono arrivati in Libia e si sa che sono tenuti in condizioni assolutamente disumane.
Non tutti gli orrori erano ancora venuti alla luce ma in ogni caso che le condizioni fossero terribili e che ci fosse un’economia in Libia che si era creata proprio sullo sfruttamento di queste persone era già evidente.
C’era tutta una parte di economia che sosteneva questi trafficanti di essere umani in una situazione diffusa e complicata.
Anche nella missione si parla di finanziamento alla Guardia Costiera libica.
L’elemento di maggiorazione dei costi della missione che non riguarda i militari perché è una missione della Guardia di Finanza - e, quindi, non dipende dal Ministero della Difesa - non è un finanziamento alla Guardia Costiera libica: c’è un costo maggiore perché è un costo della Guardia di Finanza che interviene in quel luogo per fare questo tipo di addestramento.
Anche nella discussione in cui sono emersi i punti di vista diversi che ci sono su questo, è bene che non guardiamo la punta dell’iceberg ma qual è l’elemento effettivamente da sradicare.
Il problema non è se viene o meno formata la Guardia Costiera libica, anzi, per come ho visto che i nostri militari formano le persone, più la Guardia Costiera viene formata più si evita il fatto che ci siano delle atrocità, come quelle che abbiamo visto.
Il tema vero su cui dobbiamo avere un progetto è per queste persone che sono nei lager, che vengono torturate, che hanno avuto anni di disavventure irraccontabili: noi possiamo continuare ad accettare che provino a partire, poi vengano riportate indietro e rientrino nel girone dell’inferno? No, non possiamo continuare ad accettarlo ma non basta dire che se l’Italia smette di formare la Guardia Costiera libica questo non succede. Questa situazione c’era prima delle missioni e purtroppo ha continuato ad esserci.
È vero che in tanti anni non si è riusciti a fare passi in avanti però è anche vero che sono tempi lunghi: quanto ci abbiamo messo nei Balcani a riportare una situazione di normalità dove ancora ci sono delle tensioni.
Purtroppo quando si rompono le situazioni avviene in tempi rapidissimi ma ricostruirle è qualcosa di molto più complesso.
Non è, quindi, una mancanza di volontà. Non è un non aver voluto vedere i problemi.
Sono d’accordo con Petracca sul fatto che i campi vanno svuotati o portando le persone che ne hanno diritto alla status di rifugiati nei Paesi europei, non solo in Italia - quindi dovrebbe essere un progetto che coinvolge l’Europa - oppure immaginando che molti possano anche tornare al loro Paese.
Durante l’ultima fase del Governo Gentiloni, con il Ministro Minniti che si è occupato di questo, sono stati organizzati dei corridoi umanitari da Sant’Egidio, dalla CEI, dalle Acli e da altri che avevano dato la dimostrazione che questo si può fare, trovando nuclei familiari che accoglievano queste persone.
Questo dovrebbe essere un grande progetto che l’Europa fa proprio.
Il fatto che oggi in Libia stiano dominando dal punto di vista dell’interlocuzione la Turchia e la Russia deve preoccupare l’Italia ma deve preoccupare anche l’Europa tutta.
Fino ad ora non si è riusciti, non perché l’Italia non abbia cercato questa azione in Europa.
Ho comunque speranza che ci possa essere un cambio di passo. L’Europa, ad esempio, sulla crisi del post-covid, ha saputo alzare lo sguardo più in alto. Certo può essere più semplice pensare di dare una mano economica piuttosto che occuparsi di immigrazione perché, malauguratamente, viene considerato un tema che chi lo tocca perde consenso.
Come membro del PD che appoggia il Governo in carica, ritengo che dobbiamo avere un grande progetto sull’immigrazione che tiene conto dell’esempio che faceva Petracca su ciò che avviene in Svezia.
Adesso c’è un tema emergenziale che sono le persone che stanno in Libia, che hanno subito torture e devono essere liberate da questa situazione ma poi c’è tutta la questione del come gestiamo il grande tema dell’immigrazione. Su questo ci siamo fermati, dallo Ius Culturae ai Decreti Sicurezza che dobbiamo modificare, al fatto che bisogna immaginare dei Decreti flussi o comunque dei numeri ben diversi da quelli che hanno visto i Decreti flussi fino ad oggi, fino a pensare che dobbiamo rivedere completamente la Legge Bossi-Fini, che per me è una legge sbagliata ma soprattutto è completamente inadatta a gestire il fenomeno per come oggi deve essere gestito.
Non mi stupisco che le persone che hanno a cuore i diritti umani e le politiche per la pace abbiano con forza sottolineato il fatto che questo scandalo della Libia per quello che sta avvenendo ora debba finire e credo che ci sia da porci il problema di come ce ne occupiamo. Penso che, su questo l’Italia potrebbe farsi portatrice in Europa di un grande progetto che deve coinvolgere l’Europa per immaginare intanto di intervenire nello svuotare i campi sull’emergenza ma poi non basta.
Bisogna pensare ad un grande progetto non solo per la Libia ma anche per l’Africa. L’Africa è troppo grande perché sia solo l’Italia ad occuparsene, forse anche troppo grande perché se ne occupi solo l’Europa ma certamente l’Unione Europea non può non guardare a quello che sta avvenendo in termini di incremento demografico e di problematiche, immaginando di gestirle senza mettere la testa sotto la sabbia. Ci vogliono, però, statisti e non soltanto governanti che guardano a quello che può essere l’esito delle elezioni di poche settimane dopo.
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